Prima dell’avventura al Rally Dakar 2018, conobbi Fausto Vignola diversi anni fa in occasione di una prova di Campionato italiano Senior che seguivo come speaker. Di lui mi incuriosirono subito i pantaloni che portava, una sorta di jeans con le protezioni, che mi diedero l’ispirazione per soprannominarlo “il pilota in jeans”.
Ricordo che si divertì molto per questo epiteto, che gli piacque al punto da farne occasione di allegria e battute goliardiche ogni volta che ci incontravamo.
Un ragazzo semplice
Ecco, ricordo il suo sorriso buono, quasi infantile, tipico di un ragazzo cresciuto in provincia e abituato a trattare le persone con genuina fraternità. Era cresciuto a Pogli, nell’entroterra di Albenga, un paesino di poche anime, come ce ne sono tanti in Liguria.
Un paese di gente forse ruvida e cupa, poco avvezza alle convenzioni sociali, ma tremendamente sincera nei rapporti umani. Come tanti al suo paese, Fausto amava la vita all’aria aperta: era cresciuto con la passione per la caccia al cinghiale e la bicicletta.
L’amore per il mondo del fuoristrada
L’amore per il motorally arrivò relativamente tardi e lo scaraventò immediatamente in un mondo fatto di continue sfide personali e, certo, di pericoli. Lo intrigarono la tecnica, le modalità di guida, il controllo del mezzo e gli strumenti da dover imparare a utilizzare per arrivare alla fine della gara.
Ma nello stesso tempo di tutto questo Fausto se ne fregava. Applicava alla guida il proprio non-stile, fatto di irruenza e brusche virate per uscire dalle trappole dei sentieri più insidiosi, e magari aiutare i compagni di avventure a estrarre, con forza sovrumana, le proprie moto.
Entusiasmo è sicuramente una delle parole che si possono usare per raccontare Fausto. A detta degli amici più cari pareva vivesse, due, tre vite insieme, tante erano le cose che lo appassionavano e lo tenevano impegnato. Era difficile stargli dietro. Soprattutto quando si mise in testa di partecipare alla Dakar, spinto anche dall’amico Gerry (Maurizio Gerini).
L’avventura al Rally Dakar
Una sera mi trovavo a cena dalla sorella di Fausto, a Pogli e, venuto a conoscenza della sua intenzione di correre alla Dakar, decidemmo di chiamarlo per saperne di più. Passò dopo cena e gli feci mille domande: ero entusiasta come un ragazzino all’idea che un pilota che stimavo così tanto partecipasse al rally più famoso al mondo. Ricordo che Fausto improvvisamente mi abbracciò e mi disse: “certo sarebbe bello se venissi con me e Gerry laggiù, a raccontare come solo tu sai fare quella gara”.
Di nuovo quel sorriso da bambino a illuminargli il viso, a stregarci tutti con la sua bonaria allegria.
Dal giorno mossi mari e monti per poter accompagnare Fausto e Gerry all’edizione Dakar 2018, e ci riuscii. Diedi il massimo per raccontare questa loro avventura tanto desiderata, cercando di restituire soprattutto l’aspetto più umano ed emotivo dei piloti, in un contesto complesso come il Rally Dakar.
Prima di ogni gara lo accompagnavo allo start con la solita pacca sulla spalla dicendogli: “Gion, ci vediamo più tardi al bivacco, occhio”.
Chiamava tutti Gion, prendendo spunto da un tipo strampalato che a sua volta usava questo nome per tutti, e non riusciva a farne a meno. “Gion fai questo, Gion lo capisci si o si”, e via dicendo. Faceva sbellicare dalle risate, Fausto, soprattutto quando beveva una birra in più in compagnia, sfregandosi le mani all’idea di guastarsela, e brindando sempre a qualcuno o qualcosa.
Il suo scopo era arrivare alla tappa finale della Dakar, a Cordoba, e ci riuscì. Sul podio urlava e piangeva emozionato, e io e Gerry con lui, come bambini mai cresciuti.
La fine a due passi da casa
Ultimamente confidava a Gerini che la vita gli sorridesse, e le cose gli andassero sin troppo bene: la sua amata moglie Sara, le due bambine Emma e Bianca, il lavoro e l’attività motoristica, la popolarità e l’affetto degli amici. Fino a quel maledetto pomeriggio del 29 marzo 2018, quando in un bosco di Balestrino, nel savonese, si infransero tutti i sogni del nostro grande amico.
Certo suona male sapere che un pilota così abile, che ha portato a termine la gara più difficile al mondo, e sia andato laddove professionisti non sono riusciti, abbia trovato l’ostacolo più grande proprio dietro casa. Fa troppo male dirsi “è morto facendo ciò che amava”, perché di fronte alle ragioni della morte non si può che restare attoniti e impotenti.
Preferisco pensare a ciò che ho imparato da Fausto: l’entusiasmo, la determinazione, l’amore verso la vita e soprattutto il senso di amicizia fraterna, quella genuina e incondizionata.
Il mio impegno: quello di ricordare un uomo, un pilota, e soprattutto un amico.
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